Il prezzo dello sfruttamento nel barattolo di pomarola

Un euro speso per l’acquisto di un prodotto può alimentare un circuito che genera sfruttamento

di Laura Krstovic (Prato)

“Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali, i trasportatori della camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un barattolo di pomodoro.”


Così, su La Repubblica del 6 ottobre 2016, a pochi giorni dall’approvazione definitiva della legge 29.10.2016, n. 199 (entrata in vigore il 4.11.2016), Paolo Rumiz descrive il caporalato, in un articolo dal titolo: La nostra Africa in Italia. I medici nel ghetto dei braccianti, è una sintesi della realtà di rara efficacia.

Il caporalato è una forma illegale di organizzazione e reclutamento dei lavoratori, dove si utilizzano braccianti pagati a giornata, reclutati da intermediari illegali, chiamati appunto caporali. Questi intermediari forniscono la manodopera al datore di lavoro e trattengono per sé una parte del compenso, che gli viene corrisposta sia dal datore del lavoro che dal lavoratore. Le paghe sono molto più basse dei minimi salariali. Il caporalato, entrato nel campo della criminalità organizzata, mira a sfruttare la manodopera a basso costo.

La lotta al caporalato si articola in due direzioni: la prima dipende dalle istituzioni e dalle forze dell’ordine, ed è il rispetto della legge; la seconda invece è il consumo consapevole, ed è responsabilità di tutti noi. Se davvero si vuole evitare l’ennesima tragica morte sui campi, se davvero si vogliono evitare parole di commozione che puntualmente si ripetono ma che non servono a niente, allora è il momento di agire.
Il consumo inconsapevole fa solo danni e alimenta un sistema perverso. Il consumo critico per noi è un valore, di conseguenza, bisogna costruire presupposti per mettere i consumatori nella condizione di poter cambiare ciò. 

Quando un consumatore sensibilizzato sul tema vuole comprare i prodotti certificati, di una filiera etica, dove può farlo? L’innovazione del progetto NoCAP nasce appunto dalla capacità di saper integrare e promuovere la collaborazione tra tutti gli attori locali e gli enti che realizzano la filiera di un prodotto, dal campo fino agli scaffali dei supermercati. Il progetto rappresenta il primo esperimento in Italia basato su un sistema di tracciabilità delle filiere agroalimentari mediante l’uso di due marchi, quello denominato “NoCap” promosso dall’Associazione NoCap, e quello del marchio di qualità etico “IAMME”. 

“No Cap” ha adottato un marchio che certifica i prodotti della rete agricola di qualità venduti nei negozi che aderiscono all’iniziativa. Il lavoro deve essere liberato da ogni forma di sfruttamento. A guidare e promuovere la realizzazione della filiera etica è l’associazione No Cap, fondata da Yvan Sagnet attivista ed ingegnere di origine camerunense, impegnato da anni in vari territori del Mezzogiorno per promuovere la sua battaglia alla legalità nel settore dell’agricoltura. Il progetto mira a contrastare il caporalato e, in generale, il lavoro irregolare nel settore agricolo, garantendo ai produttori un prezzo giusto per i loro prodotti e ai lavoratori il pieno rispetto dei loro diritti, a partire dall’applicazione dei contratti collettivi del lavoro.

 

I prodotti a marchio “IAMME”, disponibili in molti supermercati soprattutto nelle Regioni del Sud Italia, sono in primis il pomodoro biologico disponibile come passata, pelati, datterini, ciliegini e pomodori gialli in bottiglia e in latta, ma anche altra verdura e frutta di stagione dai carciofi ai peperoni, fino ad arrivare all’uva. Questo sistema rappresenta una novità per il sistema di commercio locale, nel quale il processo di definizione e determinazione del prezzo è partecipativo dal basso, in quanto è sempre stata la Grande Distribuzione Organizzata a dettare il prezzo del prodotto, andando purtroppo ad incidere pesantemente sull’economia degli agricoltori, i quali si rifacevano sui braccianti con misere paghe e sfruttamento. Inoltre, il progetto si pone tra gli obiettivi quello concreto di produrre cibo di qualità sia dal punto di vista del gusto che del lavoro, andando infine a strappare alle mani dell’illegalità tutte le persone che oggi sono sfruttate.


Questa tipologia di progetti potrà avere una sua sostenibilità solo se i consumatori prenderanno consapevolezza di quello che comprano e inizieranno a chiedersi da dove viene e come è stato prodotto ciò che mettono nel carrello.

E, nella consapevolezza che un prodotto è più sano e migliore per l’ambiente se rispetta determinati standard produttivi, dovrà esserlo anche nel sistema col quale quel prodotto raggiunge le nostre tavole. E se questa consapevolezza non si facesse strada nelle coscienze dei consumatori e dei nostri decisori politici, si continuerà ad alimentare inconsapevolmente il sistema di sfruttamento e a sostenere un sistema distorto e illegale di produzione.

Come consumatori, dobbiamo ancora capire che acquistare un prodotto etico vuol dire costruire un mondo migliore. Per ridare dignità ai lavoratori dobbiamo sfondare nella grande distribuzione, riconoscendo il prezzo giusto ai produttori. Bisogna intervenire sulla tracciabilità delle filiera, che porta tutti ad assumersi delle responsabilità: i lavoratori, i produttori, la commercializzazione e il consumatore; il nostro potere di acquisto farà la differenza.

E’ anche una battaglia culturale.

L'autrice / autore