di Anna Santini
All’inizio del processo di Ilaria Salis, detenuta in Ungheria con l’accusa di aver aggredito alcuni militanti neofascisti, sono circolate su internet delle foto che hanno scandalizzato l’opinione pubblica. La donna è stata portata davanti ai giudici con le manette ai polsi e alle caviglie. Tenuta da una guardia carceraria con una catena di ferro, come un cane che viene tenuto al guinzaglio. Queste immagini, insieme alla lettera scritta dalla ragazza ai genitori dove venivano descritte le condizioni disumane in cui aveva passato i primi mesi di detenzione, hanno colpito sicuramente molte persone. Tuttavia non tutti sanno che non è necessario andare fino in Ungheria per vedere quello che la Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2013 ha definito “un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”. Infatti se solamente spostiamo lo sguardo nel nostro paese i dati parlano chiaro : al 31 gennaio di quest’anno sono seicentomila i detenuti in Italia, con un tasso di sovraffollamento pari al 118 % in strutture fatiscenti che nel 30 % dei casi costruite prima degli anni ’50, con un numero di suicidi che a solo due mesi dall’inizio dell’anno raggiunge le 15 persone. Guardando a questi numeri la domanda quindi sorge spontanea : Come mai ci si ostina a considerare il carcere italiano un sistema del tutto funzionante? E soprattutto, chi ci dice che questo sia il metodo migliore per costruire una società funzionate?
A COSA DOVREBBE SERVIRE IL CARCERE
Per rispondere a queste domande dobbiamo prima di tutto individuare quali siano le funzioni che il carcere dovrebbe avere, questione che potrebbe sembrare banale ma su cui già molti sono in disaccordo. Un cittadino che trasgredisce le leggi dello Stato viene messo in un contesto isolato dal resto della società per tre motivi principali : rieducare chi ha commesso il crimine in modo che non lo compia di nuovo, difendere la collettività da un individuo potenzialmente pericoloso, e dare un monito al resto della popolazione, così che nessun altro trasgredisca la legge. Ecco, da questo elenco già dobbiamo togliere la pura punizione dell’individuo, per il fatto che questa in sé per sé, senza nessun altro fine dietro, appare del tutto inutile non solo per il condannato, ma anche per l’eventuale vittima del crimine, che non viene ricompensata in nessun modo dalla sofferenza del colpevole.
Partendo dalla teorica funzione rieducativa, vediamo subito come quello del carcere non sia proprio un ambiente congeniale per riflettere sui propri errori. Immaginate di dover stare anche solo un mese in una cella di dieci metri quadrati da condividere con altre sei persone, dove siete costretti a passare venti ore della vostra giornata. Non avete un cellulare, né un libro per passare il tempo. Per fare qualsiasi attività che non sia starsene seduto nella propria cella avete bisogno di permessi, che ci mettono mesi e mesi per arrivare. Avete un solo colloquio telefonico alla settimana di massimo dieci minuti, durata che non basta nemmeno per parlare del meteo. Non è difficile con un piccolo gioco d’immedesimazione, capire perché il 70 % delle persone uscite dal carcere ritorna a delinquere, né perché il tasso di recidiva si abbassa al 20 % quando si applicano misure cautelari alternative. A tutto ciò dobbiamo aggiungere che il sistema carcerario italiano si impegna molto poco nel reinserimento dell’individuo nella società una volta uscito. Infatti in Italia è una minima parte della popolazione carceraria quella che riceve l’insegnamento di un mestiere, fattore dovuto principalmente alle difficoltà burocratiche che comportano per un’azienda l’avere dei dipendenti carcerati. Spostamenti continui dei detenuti e limitazioni nel materiale che è possibile portare all’interno dei penitenziari, rendono l’intervento di aziende esterne atti di puro filantropismo che non vengono agevolati in nessun modo dallo Stato. In sostanza quindi, il carcere non produce solo un individuo che non può dare nessun contributo alla società perché è stato privato di qualsiasi mezzo per potervisi reinserire, ma anche più incattivito verso lo Stato stesso che per anni è stato il suo aguzzino.
Su questo punto entra in gioco la difesa della collettività. Anche guardando alla questione con un occhio più egoista appare lampante come il sistema carcerario rimetta in libertà cittadini più pericolosi di quelli che ne sono usciti. Senza contare infatti le motivazioni dette in precedenza, per cui lo stare in una cella fatiscente senza contatti con l’esterno non sia proprio l’ambiente migliore per la redenzione spirituale, è logico come di solito in un carcere ci si ritrovi con chi ha intrapreso lo stesso corso universitario. È vero che Ocean’s Eleven è solo un film d’azione particolarmente fatto bene, ma può darci un esempio pratico calzante : dopo essersi fatto prendere una volta il George Clooney di turno, quando esce pensa solo a come escogitare un piano migliore per non farsi beccare anche una seconda volta. E, distorcendo un po’ la trama del film, se nel frattempo mentre è in carcere ha trovato come compagno di cella un ragazzino appena maggiorenne messo dentro per spaccio, ma che una volta uscito avrà sicuramente bisogno di soldi, sarà facile che questo venga reclutato al posto di Matt Damon. Se quindi l’obbiettivo di escludere completamente un individuo dal resto del mondo è quello di garantire la sicurezza, diventa abbastanza improbabile se dopo sei mesi la società è più in pericolo di prima.
PERCHE’ SI COMMETTONO REATI?
La funzione di monito verso il popolo che dovrebbe avere il carcere invece, si basa un meccanismo che apparentemente sembra liscio come l’olio : vedendo che alla violazione della legge ne consegue una pena che provoca sofferenza, il cittadino evita di compiere il reato così da non subirne le conseguenze. Un ragionamento molto semplice in linea teorica, ma che tuttavia trova difficoltà a essere applicata nella pratica. Sebbene sia difficile individuare dei motivi comuni a tutti i cittadini che scelgono di infrangere la legge, dato che ogni caso ha ovviamente le sue specificità, possiamo ricondurli a due filoni principali. Il primo caso è quello di un crimine compiuto per un istinto momentaneo, come ad esempio il caso di un ragazzo che dopo l’ennesima volta in cui il padre picchia la madre, preso dalla disperazione, impugna un coltello e lo uccide. Sicuramente il ragazzo non ha il tempo, mentre assiste all’ennesima scena di violenza, di pensare che forse quel gesto non sia proprio carino per la sua fedina penale, e che dovrà pagarne le conseguenze il resto della sua vita. Se invece pensiamo ad un gesto premeditato, in realtà il ragionamento più logico per la mente umana è un semplice calcolo delle probabilità : “ Mi conviene di più passare con il rosso e prendere una multa, oppure arrivare per l’ennesima volta in ritardo e perdere il posto?”, oppure in condizioni più estreme “Mi conviene di più commettere questa rapina e finire in carcere o rischiare di non arrivare a fine mese e far finire per strada la mia famiglia?” Ecco, in situazioni del genere il rischio della pena rimane in secondo piano.
Tuttavia il problema del carcere in Italia è un problema che va al di là di questi motivi. Come tutte le società anche la nostra ha bisogno di un capro espiatorio, una parte di popolazione su cui far ricadere la colpa, e chi c’è di meglio per questo ruolo di persone già malviste dalla comunità, perché hanno infranto le regole. Gli stessi decreti emessi nell’ultimo anno dal governo sono l’emblema dell’utilizzo delle carceri come strumento per ottenere più voti : il decreto Caivano entrato in vigore lo scorso novembre come un insieme di “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile” per accontentare l’opinione pubblica dopo il caso delle due ragazzine stuprate nel quartiere di Napoli, in realtà ha già portato ad un numero record in 10 anni di 496 minori detenuti. Così come la legge anti-rave, o il pacchetto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri che prevede anche l’introduzione di una nuova pena dai 2 agli 8 anni per chi organizza o partecipa a una rivolta in carcere. Tutte disposizioni che rendono felici gli elettori, ma che non risolvono nessun problema. L’Italia è un paese che si definisce democratico, che nella sua costituzione esprime a chiare lettere come “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, e che nel 1948 ha firmato la “Dichiarazione universale dei diritti umani” dove si riconosce che tutti gli uomini sono uguali e hanno pari dignità. E proprio questa dignità, insita in ogni essere umano in quanto tale, non può essere tolta quando il cittadino infrange le leggi dello Stato. Gherardo Colombo nel suo libro “Il perdono consapevole” scrive questa frase “ Per abbandonare la pratica della pena è necessario abbandonare l’idea che l’inflizione della sofferenza sia salvifica, il che equivale a una specie di rivoluzione copernicana perché consiste nel sostituire il riferimento ultimo delle azioni umane.” Ecco, se si iniziassero a leggere le notizie sulle rivolte o sui casi di autolesionismo nei penitenziari italiani con in mente l’idea di voler veramente attuare questa rivoluzione copernicana molte delle solite frasi fatte sull’argomento sarebbero evitate. Perché così come prima di Copernico nessuno aveva mai pensato che bastasse alzare la testa al cielo per vedere che è la Terra a girare intorno al sole, magari una soluzione sostitutiva al carcere c’è ma nessuno ha mai avuto il coraggio di alzare la testa e vedere se funziona.
INTERVISTA AD ANTIGONE, L’ASSOCIAZIONE CHE SI BATTE PER UN CARCERE PIU’ GIUSTO
Per ricavare dati oggettivi sulle condizioni del sistema penitenziario italiano abbiamo intervistato Antigone, una onlus fondata nel 1991 e che si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. L’associazione, che ha sede centrale a Roma, si occupa non solo di sensibilizzazione sulle condizioni dei carcerati italiani, ma anche di raccogliere informazioni sulla realtà carceraria grazie a più di 90 osservatori e osservatrici che dopo visite periodiche in più di 200 istituti su tutto il territorio compongono report annuali, disponibili gratuitamente sul loro sito, e che ad oggi rappresentano uno degli strumenti più completi per conoscere periodicamente le condizioni delle carceri in Italia.
Quale è la condizione di vita media di un carcerato italiano secondo quanto emerge dai report dell’associazione ?
Stiamo registrando sempre di più un incremento della popolazione detenuta, tant’è che al 31 gennaio i carcerati italiani erano 60.637. Un dato così alto (che si era abbassato durante il periodo del Covid ma che poi ha ripreso a crescere esponenzialmente in questi ultimi mesi) sta a significare un tasso di sovraffollamento medio pari al 118 %, quindi una media di venti persone in più rispetto al numero consentito. Le conseguenze sono sicuramente una carenza di spazi e risorse a partire dall’opportunità lavorativa e scolastica, per arrivare alla carenza di personale, elemento che rende molto difficile la vita in carcere. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea proprio per il livello di sovraffollamento strutturale, e dopo un’iniziale decrescita, i dati degli ultimi mesi stanno sempre di più tornando a somigliare a quelli che hanno portato il paese alla condanna.
Il sovraffollamento è uno dei problemi maggiori del sistema carcerario italiano: quali sono le cause?
La causa principale del sovraffollamento è che in Italia si tende sempre di più a penalizzare e sempre meno a depenalizzare, e per questo si rischia di finire in carcere anche per reati di lieve entità. I numeri parlano chiaro: sulle 60.000 persone ad oggi detenute, più di 20.000 sono in carcere con una pena inferiore a tre anni. Molte di queste avrebbero anche i requisiti per accedere a misure alternative, ma si trovano impossibilitati, magari dalla mancanza di risorse economiche per richiedere banalmente un alloggio o una difesa legale. A questo si aggiunge il grande utilizzo della misura cautelare che porta il circa 30 % delle attuali persone detenute a essere in attesa di giudizio e quindi in linea teorica innocenti. Se si riuscisse a diminuire prima di tutto gli ingressi, e soprattutto a favorire le uscite quando alla persona manca poco per scontare la pena, così come se aumentassero le possibilità lavorative all’interno degli istituti per evitare che una volta usciti si ritorni a delinquere, i numeri sarebbero sicuramente minori.
Lo scorso novembre il consiglio dei Ministri ha approvato un pacchetto sicurezza nel quale si prevede più tutela per le forze dell’ordine o l’introduzione di nuovi reati come quello delle rivolte in carcere. Crede che questa decisione avrà delle conseguenze nei prossimi mesi ?
Nel nostro sito è già presente un comunicato del presidente dell’associazione Patrizio Gonella con i “No” di Antigone punto per punto a ciò che è previsto nel decreto sicurezza. Quella delle rivolte sicuramente è una delle questioni che noi critichiamo con più fermezza, dato che viene definita rivolta qualunque associazione di più di tre persone che esprimono il proprio dissenso su una questione qualsiasi, anche in maniera pacifica, e che per questo possono vedersi imputato un nuovo reato e allungare ulteriormente la propria pena. Dover abbassare per forza la testa senza neppure poter passivamente protestare, per persone all’interno di un sistema dove tutto è veicolato dallo Stato, come quello carcerario, sarebbe veramente un ritorno al carcere antico che ormai speravamo di aver superato.
Un altro dato che salta all’occhio è che sono 67 i suicidi avvenuti all’interno del carcere durante il corso dell’anno, e in media ogni 100 detenuti sono avvenuti 16,3 atti di autolesionismo: quale potrebbe essere il principale fattore di un dato così elevato ?
Ovviamente in questi casi è difficile trovare una risposta univoca dato che la decisione di togliersi la vita è sempre una scelta estremamente personale e dettata da moltissime questioni, però dati di questo tipo fanno pensare inevitabilmente ad un problema di sistema: solo nel mese di gennaio già sono stati registrati quindici suicidi nelle carceri italiane, dato che supera anche il 2022, anno con il tasso di suicidi più alto dell’ultimo periodo, dove a gennaio i suicidi registrati erano stati sette. Sicuramente già chi entra in carcere è caratterizzato da più difficoltà e marginalità sociale ed economica rispetto alla popolazione libera, quindi ci troviamo davanti a persone già in partenza fragili, e che devono affrontare un periodo a dir poco difficoltoso della propria vita. In più le condizioni di vita una volta entrati, l’approccio duro che si trova in questo tipo di contesto, e i pochissimi contatti consentiti con i familiari, rendono estremamente difficile la quotidianità in carcere, cosa che può portare a lungo termine a scegliere di commettere atti come quelli di autolesionismo o a togliersi la vita
Come ha accennato anche in precedenza, durante il periodo del covid i numeri nelle carceri sono quantomeno migliorati e, dopo le rivolte avvenute proprio nel 2020, si è parlato molto delle condizioni dei detenuti italiani. Secondo lei tutte queste discussioni avvenute a livello di opinione pubblica, hanno portato a qualche effettivo cambiamento?
Sicuramente l’emergenza sanitaria ha portato alla luce i problemi delle carceri italiane, perché nel momento in cui gli istituti sono stati chiusi improvvisamente, eliminando del tutto quei pochi contatti con l’esterno, e dimostrando come in spazi così sovraffollati fosse impossibile rispettare le norme sanitarie, è scoppiato il panico tra la popolazione carceraria. Infatti a seguito delle rivolte noi come Antigone insieme a altre molte realtà, abbiamo ricevuto segnalazioni da parte di vari istituti penitenziari, in primis quelle di Santa Maria Capo a Vetere a Milano, di violenze commesse dagli agenti sui detenuti. Più che per l’opinione pubblica, il calo è stato dettato dalla necessità di garantire più spazio all’interno delle strutture e per questo si è tentato di mettere più persone possibile in detenzione domiciliare; nonostante il fatto che durante tutta l’emergenza sanitaria non si sia verificato nessun caso di crimine commesso da chi era stato spostato ai domiciliari, appena questa è finita, le persone sono state rimandate dentro. La cosa buona che ha fatto il covid per il carcere sono state le videochiamate che hanno sostituito i colloqui in presenza e che rimangono tutt’ora come mezzo per comunicare con l’esterno.
Secondo i dati raccolti dall’osservatorio su 97 istituti visitati di media la percentuale dei detenuti che lavorano è pari al 29,2%. Che importanza ha il lavoro in un contesto come quello del carcere?
Purtroppo il lavoro in carcere è poco e soprattutto la maggior parte dei detenuti che lavora lo fa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e svolge lavori non particolarmente qualificanti o remunerativi, cioè i classici lavori di manutenzione dell’istituto come il così detto “spesino”, cioè colui che consegna la spesa, oppure lo “scopino”, cioè quello che pulisce. Anche solo la denominazione di questi mestieri è infantilizzante e degradante per chi li compie. Mentre al contrario solo il 3 % di chi lavora lo fa con datori di lavoro esterni, elemento che però andrebbe incrementato, perché permette di compiere un lavoro più qualificante e praticabile anche una volta usciti dal carcere, e anche gli stessi datori di lavoro, grazie alla poco conosciuta “Legge Smuraglia”, potrebbero trarre vantaggio dagli sgravi fiscali che comporta l’assunzione di un carcerato o ex-carcerato.
Infine quali sono le proposte dell’associazione Antigone non solo per migliorare le condizioni di vita dei carcerati italiani, ma anche per cambiare la mentalità che la società italiana presenta nei confronti del tema della detenzione?
In Italia il carcere è sempre tenuto lontano dagli occhi di tutti, se ne parla solamente quando avvengono fatti di cronaca e quindi di conseguenza se ne parla sempre male, con i vari slogan come “buttiamo la chiave”, che in questo periodo in particolare di populismo penale si sentono ripetere molto spesso. Oggi si promuovono politiche che non tengono contro dei dati statistici e che mirano a ottenere consenso facile usando il pugno duro contro la piccola criminalità. E invece avremmo bisogno di incentivare le politiche sociali ed educative sul territorio, che sono più complesse ma che a lungo termine portano dei miglioramenti non solo a livello di condizioni di vita carceraria ma anche di sicurezza della cittadinanza. Se infatti si pensa anche alla recidiva, è possibile vedere cali in modo esponenziale se si applicano misure cautelare a quegli individui con reati minori, per la maggior parte delle volte frutto di una marginalità sociale. Le cose che si auspica Antigone sono sicuramente: il miglioramento dei dati di sovraffollamento, e, a livello di condizioni di detenzione, evitare il ritorno di pratiche antecedenti alla condanna della Corte Europea come ad esempio la diffusione di sezioni a celle chiuse. Anche a livello di comunicazione con l’esterno speriamo in alcuni passi avanti, come ad esempio l’importante sentenza della corte costituzionale che ha approvato il diritto all’affettività in carcere e quindi al diritto alla sessualità con il proprio partner, che fino a questo momento non era prevista nel nostro ordinamento e che speriamo le amministrazioni e la magistratura inizino a mettere in pratica al più presto.
Editing a cura Fabio Cutrupi
L'autrice / autore
Nata ad Arezzo, mi piace il teatro, il mio libro preferito è Il Maestro e Margherita e ho una profonda paura verso ogni tipo di volatile. Alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” vorrei rispondere dicendo che mi piacerebbe dare voce a chi non è abbastanza potente per farlo da solo, ma di solito finisco per stare zitta e guardarmi la punta delle scarpe.