Angelica Ricci, 19 anni: “Ho vissuto l’esperienza di una relazione malsana e violenta che ho deciso di raccontare“
«Sono caduta nel ciclo della violenza quando avevo 14 anni e ci sono rimasta per due anni e mezzo. Mi misi con il mio primo fidanzato quando ero in prima superiore e riguardandomi adesso so benissimo che ero troppo piccola, immatura e decisamente con troppa poca esperienza per capire cosa fosse amore o cosa non lo fosse affatto.
Nei primi mesi non ci furono grandi segnali di cosa poi sarebbe successo ed ero totalmente assuefatta dall’idealizzazione che si ha dell’innamoramento, soprattutto quando si parla della prima relazione. Le cose per noi, però, cambiarono velocemente. Lui in tempi record riuscì a rendersi padrone della mia vita e di tutto il mio tempo: mi allontanò dalla mia famiglia, dai miei amici e da qualsiasi luogo frequentassi prima di iniziare quella relazione. Un po’ come se volesse farmi dimenticare quell’Angelica, rendendomi totalmente sua fino al midollo. Perfino i miei hobby non erano più miei, anche perché nemmeno io mi concedevo la possibilità di prendermi del tempo per me stessa. Quando fotografavo ritraevo lui, quando leggevo leggevo per lui, quando scrivevo lo facevo per lui. Insomma, neanche nelle cose che mi rendevano me stessa riuscivo ad essere da sola e a concedermi quello spazio senza la sua influenza.
Riuscì ad infilarsi in qualsiasi anfratto della mia vita, a rendersi padrone di ogni spiraglio di tempo che io potessi avere. Non ero più padrona di fare niente senza senza coinvolgerlo, e anche quando non poteva essere presente lui c’era. Mi arrivavano continuamente telefonate e messaggi: dove sei, con chi sei, cosa stai facendo, mandami qualche foto. Una volontà continua, in fin dei conti, di voler essere presente anche quando non poteva trovarsi lì fisicamente. E io glielo permettevo, perché pensavo che quella fosse una delle sue grandi dimostrazioni d’amore.
Mi ricordo che durante la prima quarantena era diventato particolarmente geloso di un mio amico ed io non ne potevo più. Stavo iniziando a diventare fin troppo insofferente, molto più di quanto non lo fossi stata nei mesi precedenti, così decisi di lasciarlo. Iniziò a dirmi che stava male, che stava pensando di uccidersi, che, a causa mia, era caduto in una depressione totale e, violando anche qualche legge, un giorno decise di presentarsi sotto casa mia. Così decisi di perdonarlo e mi infilai di nuovo in quella ragnatela. Mi sentivo veramente in colpa e quel sentimento non sono mai riuscita a sopportarlo, in più stupidamente pensavo che il gesto fosse estremamente romantico. Solo dopo avrei capito che con quel comportamento non mi aveva permesso di essere libera, non cogliendo il campanello d’allarme del possesso che stava esercitando”.
Le cose andarono avanti così per parecchio tempo. Io continuavo a star male, palesandoglielo in mille occasioni, ma perdonavo costantemente qualsiasi cosa facesse. Ormai si era instillato in me uno dei demoni delle relazioni malsane: la dipendenza affettiva. Non potevo pensare di rimanere sola o di non averlo al mio fianco, perché ciò mi terrorizzava molto di più di quanto lo facesse la sofferenza per i suoi comportamenti. Siamo andati avanti in questo modo per parecchi mesi, fino a quando, dopo l’ennesima discussione, mi mise le mani addosso e lì capì effettivamente che quella relazione andava troncata immediatamente. Non potevo più chiudere gli occhi e perdonare, mi era finalmente diventato palese quanto quello non fosse amore, bensì l’opposto.
La prima cosa che feci fu chiamare mia mamma, dopo aver ritrovato il telefono che mi aveva nascosto, e con grande affanno chiederle di venirmi a prendere. Mi ricorderò per sempre che una volta uscita da quella casa, che in quel momento mi sembrava un inferno, trovai sua madre. Mi disse che da fuori aveva sentito parte di ciò che stava succedendo, scegliendo di non entrare, e che mi sarei dovuta aspettare che una cosa del genere, prima o poi, sarebbe successa. Secondo lei io me l’ero cercata rimanendogli affianco nonostante tutti i campanelli d’allarme, di fronte cui però io ero cieca. In quel momento mi sentì molto stupida, devo essere sincera, perché mi sentivo un po’ come se mi dovessi dare, io in primis, la colpa di quello che era successo. Non ero stata in grado di proteggermi, di uscire per tempo da quella dinamica.
Appena salìì in auto andammo in caserma per presentare denuncia, e lì fortunatamente conobbi un maresciallo che per me fu fondamentale. Ci sedemmo a quella scrivania e con fare molto sensibile, quasi paterno, mi iniziò a spiegare cosa fosse il ciclo della violenza. Riuscì a farmi capire che ancora prima di quegli schiaffi, quei cazzotti, quelle spinte c’era stata in campo una violenza psicologica che mi avrebbe necessariamente lasciato dei segni nel tempo. Compresi che avevo giustificato tutto come se fosse amore, incapace di potermi rendere conto di cosa effettivamente stesse fosse successo durante quei 2 anni e mezzo.
La tappa successiva fu l’ospedale, dove attivarono il codice rosa e mi mandarono a casa con 2 settimane di prognosi, un tutore per guarire la spalla slogata e una bustina di Brufen per alleviare il dolore delle contusioni. Una volta iniziata questa procedura, però, per me iniziò il vero calvario: doverlo incontrare ogni giorno a scuola, senza che nessuno muovesse un dito in mio aiuto. Non fui mai davvero tutelata. Per i primi mesi, a causa del covid, decisero di lasciaci compagni di banco, le politiche della scuola non permettevano cambiamenti. Gli diedero la possibilità, così, di assillarmi con mille promesse per convincermi a ritirare la denuncia. Cercavo di non farmi influenzare dalle sue parole, dalle sue preghiere. Non ci riuscìì. Mi dovettero portare all’ospedale a causa di un attacco di panico, ero seduta e non potevo smettere di tremare, e solo dopo questo, grazie all’intervento dei carabinieri, mi diedero la possibilità di spostarmi dall’altra parte della classe.
Sotto questo aspetto neanche i servizi sociali mi furono di grande aiuto. Non vi fu modo di allontanarlo, anche solo obbligandolo a cambiare sezione, e fui costretta, con modi molto svilenti, ad un percorso psicoterapeutico obbligatorio, senza cura dell’immensa fragilità che mi caratterizzava in quel momento. Dovetti fare varie sedute, non solo con gli psicologi dei servizi sociali, ma anche con una psichiatra incaricata di fare una perizia. Insomma, volevano capire quale fosse stato il problema, se io avessi istigato l’accaduto o se addirittura mi fossi inventata tutto.
Essendo minorenne, oltretutto, fummo obbligati a ricevere gli assistenti sociali in casa un paio di volte. Volevano essere sicuri che i miei genitori mi potessero garantire un ambiente adeguato per la crescita di me e mia sorella. E io non posso nemmeno immaginare l’umiliazione che hanno provato nel sentirsi messi in discussione in quel modo, come se il tutto fosse nato a causa loro.
Nella mia storia, voglio sottolinearlo, la violenza fisica passa in secondo piano, un po’ come se fosse stato uno strumento per comprendere la realtà. L’unica cosa davanti cui non ho potuto rimanere in silenzio. La mia è una storia in cui ci sono delle dinamiche che, una volta superate, analizzare e comprese, mi hanno permesso di capire che, benché avessi davanti una persona che non era stata in grado di rispettarmi, dentro di me c’erano dei vuoti, un’idealizzazione di un amore sbagliato, che mi avevano portato fin dall’inizio a giustificare qualsiasi cosa stesse succedendo.
NON MI VOGLIO SENTIRE VITTIMA
Non mi sono mai voluta definire una vittima in questa storia, né di una persona tanto meno di un sistema, perché ritengo che ciò ponga in una situazione psicologica da cui, poi, è molto difficile uscire. Questo non dà le basi e la possibilità di analizzare se stessi, non riuscendo a capire quali siano stati gli inghippi per cui si giustificava l’ingiustificabile. Al contempo, dietro tutto quello che mi è successo non vedo della misoginia o cultura del possesso del patriarcato, come spesso si sente dire o si legge sui social. Io vedo delle persone, intere generazioni, che non sanno amare e relazionarsi in modo sano con gli altri. E questo, secondo me, nasce dal fatto che siamo cresciuti con film e libri che rappresentavano stereotipi relazionali tremendi, comportamenti idealizzati che dovrebbero invece preoccuparci se escono dalla finzione e diventano realtà. In più abbiamo uno strumento in mano, il cellulare, che non ci permette di dare un freno alle situazioni e allontanarci, facendo due passi indietro, per rimanere un po’ da soli a riflettere. Non riusciamo più ad entrare veramente in contatto con i nostri sentimenti, non potendo esserne padroni e finendo per farci controllare da ciò che proviamo. E se non capiamo noi stessi, se non conosciamo l’amore e cosa significhi dimostrarlo, come potremo relazionarci in una società in maniera positiva? Per questo penso che la cosa più importante da fare sia iniziare a conoscerci per davvero e smettere di essere, come scrisse Rovatti, analfabeti del pensiero.
A noi, però, queste cose non piace ammetterle, perché vorrebbe dire guardarsi allo specchio e capire che siamo ingranaggi di un meccanismo malato. È molto più facile poter puntare il dito contro un nemico che non ha un volto.
Non aspettiamo che siano i piani alti a fare qualcosa, per cambiare i massimi sistemi di questo mondo c’è tempo. Ritagliamoci un po’ di tempo, in una società che ce ne ruba tantissimo, solo per noi stessi, per curarci abbastanza da arrivare a capire cosa sia l’amore. Insomma, facciamo qualcosa che possa davvero eliminare la nociva eredità che stiamo portando avanti: il possesso di tutti su tutti, una cultura che non risparmia nessuno”
Se vuoi raccontare la tua storia in privato, scrivimi a cardium.generazionenews@gmail.com