Intervista a cuore aperto al preside di una delle scuole più popolate di Firenze, Osvaldo Di Cuffa. Il primo passo? “Dobbiamo farlo noi, e prima di tutto gli insegnanti”. Immigrazione, violenza, programmi scolastici: tutti i temi caldi
Intervista di Geraldina Fiechter
Osvaldo Di Cuffa (nella foto in evidenza con Don Ciotti) è un preside, oggi si direbbe un “dirigente scolastico”. Ma non di una scuola qualsiasi, bensì di un Istituto tecnico professionale di un quartiere un tempo periferico di Firenze dove ancora oggi si concentra gran parte dell’immigrazione. Nella sua scuola, Sassetti Peruzzi, con indirizzo commerciale, sanitario e turistico, il 40 per cento degli studenti ha la cittadinanza straniera. E’ una scuola laboratorio, con tutte le contraddizioni e le sfumature a cui siamo esposti da ora in poi. I ragazzi che escono da lì hanno un vantaggio: hanno capito come va il mondo. E, come dicono oggi i giovani, imparano “a starci dentro”. Quale migliore osservatorio per capire i problemi della scuola nell’anno 2025? Cominciamo.
Secondo lei quali sono le priorità della scuola in questo momento?
Rendersi conto che l’approccio tradizionale con gli studenti di oggi non non funziona più. Per tanti motivi. Non funziona a livello dei professionisti, delle superiori, delle scuole medie, perché sento insegnanti, dirigenti eccetera dire tutti le stesse cose: i ragazzi sono distratti, l’attenzione è bassa, non si interessano, sono agitati, vanno in crisi facilmente, quindi vuol dire che il modello classico in cui gli insegnanti fanno lezione e i ragazzi ascoltano, non funziona più.

Perché secondo lei?
Perché viviamo in un contesto sociale in cui l’insegnante non può essere più colui che detiene non dico il sapere ma le informazioni da trasmettere: i ragazzi trovano tutto quello che vogliono, in qualunque linguaggio desiderano, e in modo inevitabilmente più aggiornato di quanto possa fare l’insegnante. Non solo: sono abituati a un sistema in cui le informazioni cambiano velocemente, quindi non sono in grado di ascoltare lo stesso argomento per ore. E attenzione, la stessa cosa succede anche a noi adulti: quando ci mettiamo davanti al telegiornale, non ascoltiamo più passivamente come prima, perché contemporaneamente magari guardiamo il cellulare o il computer. E perché non dovrebbero farlo anche i ragazzi?
Quindi la scuola deve ripensare completamente al modo in cui insegnare e svolgere il suo ruolo educativo. Pensa che questa consapevolezza sia condivisa dai suoi colleghi?
Certamente dalla maggioranza dei colleghi, non facciamo altro che parlare di questo.
E ci sono idee valide secondo lei su come impostare questo cambiamento così necessario?
Secondo me sì. In generale dobbiamo partire dall’idea di abbandonare l’idea della spiegazione classica, frontale, e di fare ricerca insieme ai ragazzi. Molti insegnanti dicono: ma noi dobbiamo fare da mediatori. Appunto. Mediare, sì, ma fra i ragazzi e la realtà in cui viviamo, che lo si voglia o no. E’ questa la nostra funzione.
Non è facile accettare un ridimensionamento di ruolo così netto. Tanti dicono: ma se i ragazzi studiano sul computer e in Rete, noi insegnanti non serviamo più. E’ una paura legittima?
Sbagliano. In realtà si tratta di rivalutare un ruolo che non può e non deve scomparire: si tratta di consentire ai ragazzi un accesso mirato, critico, alle informazioni che ci sono. Certo è complicato, lo so, perché in questo momento non esiste un manuale per imparare a fare questa conversione, bisogna sperimentare.
GUARDARSI IN FACCIA
E la maggior parte degli insegnanti le risponderebbe che devono seguire i programmi ministeriali. Non è così?
Ni, perché è vero che ci sono degli argomenti chiave, ma il problema non è cosa si insegna ma come si arriva a quell’argomento. Che poi in realtà non si tratta di inventarsi niente, perché questo è il lavoro che faceva Don Milani 50 anni fa. Don Milani leggeva il giornale insieme ai ragazzi e cercava di capirlo con loro. Ha sempre fatto così. Ricordo quello che mi disse uno dei suoi ex alunni: “Lui non ci ha mai girato le spalle, ci faceva lezione guardandoci sempre in faccia”. E questo è fondamentale, perché girarsi di spalle per scrivere alla lavagna, per esempio, chiedendo ai ragazzi di copiare, ammazza la relazione. Si può discutere con chi è girato dall’altra parte? Impossibile.
E’ per questo che togliete le lavagne?
Sì, sono tutti stratagemmi che stiamo cercando di usare per costringere gli insegnanti a dialogare con i ragazzi, ma non è facile perché siamo troppo vincolati a una certa idea di insegnamento.
Da quello che ha detto fino ora si deduce che sono gli insegnanti a dover fare il passo più grande, per adeguare la scuola ai ragazzi di oggi

Per quanto riguarda il cambiamento che deve fare la scuola, è vero, questa è la priorità. Ma è chiaro che c’è anche un problema che riguarda i ragazzi. Io oggi per esempio ho avuto una conversazione lunga con un gruppo di rappresentanti degli studenti della mia scuola sulla questione fumo, dopo la decisione dura che abbiano preso di far stare i ragazzi in classe durante la ricreazione perché quando escono non rispettano il divieto di fumare. Una parte dei ragazzi ha installato una protesta, io gli ho detto “Scusate, però io vorrei capire su che cosa protestate. “Vogliamo andare fuori, perché è giusto che abbiamo un periodo di sfogo dopo che stiamo 6 ore in classe”. Giustissimo. Però da parte vostra c’è un impegno a dire “Vabbè, però c’hai ragione, forse è vero, non dovremmo fumare, ci impegnamo a non fumare”?
Cosa hanno risposto?
Che è inutile imporre ai ragazzi di non fumare perché tanto fumano lo stesso. Come dire: noi siamo così e non c’è verso di educarci. Ma come? Se ti sto spiegando che quella è una cosa che facciamo per voi, per la vostra salute, non basta per condividere un impegno? Voi rispettare le regole solo se c’è una sanzione, per paura delle multe? E allora perché al cinema non fumate? Gli detto: guardate che di questo passo mi state dicendo che è giusto instaurare una dittatura perché così vi fate regolare dal dittatore di turno.
Come è finita?
È finita che gli ho detto “Voglio vedere un documento in cui mi dite: Preside, abbiamo capito il suo messaggio, noi ci impegniamo, mettiamo la firma sull’impegno a non fumare dentro la scuola”. La loro risposta è stata “No, noi diciamo allora che mettiamo una firma sul fatto che chi trasgredisce avrà una sanzione doppia”. Niente da fare, senza sanzione non se ne esce.
DIAMOCI UNA REGOLATA
C’è un problema con le regole?
Sì, i ragazzi hanno un serio problema che riguarda il rapporto con gli altri e con le regole. E’ mancata l’educazione all’idea di regolamentare la convivenza con gli altri.
Quindi la colpa è più nostra che loro, giusto? Parliamo per esempio dell’uso del cellulare a scuola e della circolare ministeriale che molte scuole ritengono inapplicabile e inadeguata Il risultato è una regola a metà, che ogni scuola interpreta a modo suo. Come le sembra che sia gestita la cosa?
Noi siamo arrivati a dover prendere la decisione di togliere il cellulare nei momenti di attività didattica dove non è previsto l’uso del cellulare. Perché purtroppo, appunto, avendo i ragazzi un grave problema di autoregolazione, non riuscivano a comprendere che ci dovevano essere dei momenti in cui il il cellulare andava riposto. Pensavamo che fosse un problema di dipendenza, invece forse non lo è. Perché tantissimi, non tutti, ma tanti, nel momento in cui abbiamo imposto loro di chiudere il telefono in una cassetta, non hanno avuto crisi di astinenza, anzi è stato proprio dimenticato. Un po’ come succede a noi. Quindi evidentemente è proprio un problema di autoregolazione che manca.
Questo però ci insegna che di regole hanno bisogno. La scuola ha anche questa funzione educativa, mi sembra di capire, o no?
Certo. Sicuramente le scuole, anche le scuole superiori, devono rivedere le priorità sulle cose da dare ai ragazzi e rivalutare molto l’aspetto educativo, che in qualche modo mette in secondo piano l’istruzione. Per essere cittadini migliori non basta essere istruiti, devono sapere rispettare le regole per stare in una comunità.
E questo è un aspetto sempre difficile da fare passare, soprattutto alle superiori, dove gli insegnanti spesso dicono: “Io sono qua per insegnare la chimica piuttosto che il diritto oppure la matematica, non per insegnare l’educazione”.
Lo so. Ma nel momento in cui mi trovo dei ragazzi che l’educazione, in qualche modo, hanno ancora bisogno di impararla, non posso far finta di non avere questo ruolo.
FACCIAMO UN PATTO
Dunque se andiamo avanti di questo passo il sistema scolastico rischia di finire su un binario morto. C’è da rimboccarsi le maniche: da dove si parte?
Per me si dovrebbe partire da un patto: una sorta di presa di coscienza di questa situazione e una sorta di patto vero su come vogliamo la scuola.
Un patto con chi? Le istituzioni, le agenzie educative?
Certo, sarebbe meglio. Ma siccome le scuole sono dotate di autonomia e possono lavorare da sole, con l’utenza che hanno di fronte possono mettere a un tavolo i ragazzi, gli insegnanti, i genitori e dire: noi vogliamo ottenere questo. Non so se è quello che vi aspettate, ma noi ci siamo resi conto come scuola e come professionisti che i ragazzi hanno bisogno di questo. Perché i professionisti siamo noi, quindi non possiamo pretendere che le risposte ci vengano date dall’esterno.
Però poi il patto deve essere tenuto,
E questa è la parte più difficile. Gli insegnanti devono impegnarsi ad avere un certo atteggiamento, a perseguire certe attività, a metterle in campo. Dall’altra parte bisogna pretendere che i ragazzi rispettino l’impegno che la scuola ci mette. E non sempre accade. Noi facciamo tante attività, da quelle interdisciplinari alle classi aperte, abbiamo moltissimi progetti portati avanti da insegnanti bravissimi e appassionati, ma non sempre i ragazzi sembrano cogliere queste opportunità. Forse è anche un problema di comunicazione nostra? Ci stiamo interrogando.
IMMIGRATI? IL PROBLEMA NON E’ QUESTO
Altro argomento: tempo fa si è molto discusso della decisione della preside di un professionale di Montefiascone che ha autorizzato sei ragazzine con famiglie che vengono dal Bangladesh a entrare a scuola con il velo integrale, quindi con il volto quasi del tutto coperto. Lei che gestisce una scuola multietnica, cosa avrebbe fatto al posto di quella preside?
Noi dirigenti abbiamo un obbligo, quello del riconoscimento degli studenti che entrano a scuola, dobbiamo essere certi che quei volti rispondano alle persone iscritte a scuola. Quindi avrei fatto come lei: dopo l’identificazione ogni mattina, le avrei lasciate entrare a scuola con il velo.
Non tutti i presidi sono d’accordo, il paese su questo si è diviso. Molti sostengono che in occidente il viso deve essere scoperto perché è il nostro modo per riconoscerci e comunicare. La buona integrazione, dicono, passa anche dalla condivisione del nostro modo di stare insieme: se ogni comunità si chiude al suo interno, sarà più difficile gestire i conflitti. In previsione di una società in cui già metà dei bambini che nascono sono figli di stranieri, e che di loro abbiamo comunque bisogno, come si realizza una buona integrazione a scuola?
I problemi di integrazione che vedo io non sono legati alle differenze culturali, che indubbiamente esistono e sono a volte profondissime, ma alla povertà. Il problema quindi è sociale. Prendiamo ad esempio la comunità cinese, una delle più numerose nella mia scuola: è evidente che i cinesi ricchi si integrano molto meglio dei cinesi poveri. E così succede per i bengalesi o i marocchini, per dire, dove è più complicato accorgersene perché i ricchi sono pochi. Ma fateci caso: chi ha il macchinone e può permettersi i corsi di italiano, si integra molto prima e molto meglio.
Non registra una propensione di alcune comunità straniere a blindarsi al loro interno?
Sicuramente, ma è sempre stato così per tutti, altrimenti non esisterebbero le varie Little Italy nel mondo. Emigrare porta un senso di insicurezza che si cerca di compensare stando fra gente che parla la stessa lingua e che ha fatto la stessa esperienza. Però una società inclusiva non vuol dire che la cultura ospitante è un gradino più alto e che quindi gli altri devono adattarsi. Dobbiamo condividere dei valori comuni, ma anche riconoscere a tutti la propria diversità e libertà individuale.
Però è un discorso molto complesso: tornando al caso della ragazzine con il velo integrale, siamo sicuri che sia una loro volontà e non siano state invece indotte dalle famiglie a indossare il velo integrale?
Ci devono essere valori universali che non possono essere disattesi: la violenza delle famiglie, i matrimoni combinati, da noi sono dei reati. E dobbiamo lavorare sul piano culturale e sui principi della libertà individuale. Ma questo non comporta escludere valori diversi dai nostri.
Rispetto a qualche anno fa vede segni di miglioramento nell’emancipazione dei ragazzi stranieri dalle loro famiglie di origine? Ricordo per esempio che molti genitori cinesi pretendevano che i figli lasciassero la scuola a metà percorso per andare a lavorare con loro.
Sta cambiando. Fino 10 o 15 anni fa c’era sicuramente un appiattimento dei ragazzi rispetto alle richieste della loro comunità, per esempio lasciare la scuola a 16 anni per andare a lavorare. Ora questi ragazzi sottostanno molto meno alle varie richieste dei genitori, non solo sul lavoro, ma anche quelle legate più banalmente all’espressione dei loro sentimenti: fino a un po’ di anni fa era difficile vedere due ragazzini cinesi per la mano a scuola. Adesso li vedi. Il confronto con gli altri ragazzi li ha cambiati.
Il problema è più per gli adulti o per i ragazzi?
Per i ragazzi questa evoluzione verso una società complessa è naturale, perché è la loro società. Siamo noi che non siamo abituati a un certo tipo di società e ci sembra tutto un problema, ma nella pratica una scuola complessa come la nostra ha tanti problemi, ma non quello. Non ci fanno neanche caso alle differenze, se sono americani o marocchini o brasiliani.
VIOLENZA DI GRUPPO
E quale è il problema invece?
Lo sdoganamento della violenza come soluzione dei conflitti. E il gruppo diventa spesso uno strumento per regolare i problemi. E questa tendenza è trasversale, riguarda i cinesi come gli italiani e tutte le altre componenti etniche.
Secondo lei perchè?
Credo che sia legato all’insicurezza, all’incapacità di relazionarsi con gli altri e all’impoverimento degli strumenti di comunicazione: prevalere sugli altri è un modo di comunicare. Su questo bisognerebbe lavorare, più dei problemi del velo o non velo: la comunicazione.
C’è anche un grande problema di fragilità psicologica che tutti lamentano nelle scuole
Sicuramente, e da un certo punto di vista il fatto che le manifestino è positivo. Le crisi di panico che aumentano quotidianamente, i cambi di scuola frequenti perché i genitori non sanno come gestire le difficoltà scolastiche dei ragazzi, quindi la fuga continua, generano ancora più fragilità.
I ragazzi cosa le dicono sulla violenza?
Oggi parlavo con un ragazzo che mi diceva: non posso andare in discoteca perché se qualcuno mi provoca io non ce la faccio, reagisco e gli faccio male. E come faccio a non rispondergli? Ora non tutti, ovviamente, ma tanti mi hanno fatto un discorso simile. Come dire: se non reagisco non valgo niente, devo farmi rispettare. Questo mi angoscia. Perché se individualmente capiscono che non dovrebbe funzionare così, poi ti sfuggono, predomina qualcosa più forte di noi.
Rispetto a quando lei ha cominciato a lavorare nei tecnici e professionali, sono cambiate molto queste dinamiche?
Comportamenti violenti o devianti ci sono sempre stati. Ma prima erano casi individuali, quindi più facili da gestire. Ora invece i ragazzi portano a scuola il disagio che hanno all’esterno, e le modalità sono di gruppo. Quindi è molto più difficile individuare i responsabili e intervenire.
Torniamo al discorso delle regole. Se lei dovesse da domani attaccare un cartello: “Queste sono le regole inderogabili del Sassetti Peruzzi, quali sarebbero?”.
Allora, sicuramente regole semplici che riguardano lo svolgimento e la regolazione delle attività. Per esempio, una regola che i ragazzi non riescono in nessun modo a rispettare è quella di mangiare ad orari prestabiliti e non si rendono conto di quanto questo sia una cosa che destabilizza. Oppure non andare in bagno continuamente. Però è vera una cosa: se non rispettano queste regole è anche perché evidentemente c’è un disagio.
Li giustifica, quindi?
Non li giustifico, però dobbiamo pensarci: c’è un modo per evitare che si sentano così a disagio? Le lezioni sono troppo lunghe? Le devo spezzare, ogni mezz’ora faccio una pausa e consento a tutti di andare in bagno, per esempio, o di mangiare o di bere? Quindi trovare il modo non per non farli annoiare, ma per fare in modo che questa frustrazione, diciamo così, sia meno evidente. Ascoltare una sola persona che parla, in questo momento è sicuramente un peso, e forse non è neanche proficuo per l’apprendimento. Per questo torno a dire che bisogna pensare ad attività che prevedono un loro coinvolgimento
Siamo nella sua stanza e ogni quarto d’ora entra un ragazzo e un insegnante che hanno discusso e chiedono il suo intervento. E’ strano, non è così frequente
Sì, e questa cosa devo dire mi inorgoglisce. Sanno che ascolto, che non vuol dire che gli dò ragione, ma sanno che possono parlare liberamente e che possono fidarsi.
RIPORTIAMO A SCUOLA SPORT, MUSICA, ARTE
I ragazzi secondo lei si relazionano troppo con il telefono e i social, hanno poche relazioni esterne?
No, il problema dei ragazzi di oggi invece è che hanno tante relazioni, ma non più per fare qualcosa insieme. Non a caso tanti ragazzi non fanno sport come prima, perché li vincola a determinate attività che comportano il rispetto di regole, orari, e preferiscono muoversi liberamente per stare insieme. Anche le società sportive lamentano tutte un calo delle iscrizioni, soprattutto dopo il Covid.
Ecco appunto: sport, musica, arte, sembra che la scuola abbia ormai abbandonato il ruolo di attività che un tempo consideravamo fondamentali per la crescita dei ragazzi. Cosa è successo?
Sono completamente d’accordo. Per me la scuola dovrebbe ripartire anche da queste attività che stimolano degli interessi, delle passioni, un modo più naturale di stare insieme. Perché non si studia più la musica a scuola, per esempio? Si studia solo nell’indirizzo musicale, ma lì ci va gente che è già motivata. Mentre sappiamo bene quanti benefici porta lo studio della musica, proprio dal punto di vista mentale, del benessere. E così lo sport, l’arte, abbiamo settorializzato tutto: solo chi studia musica fa musica, solo chi studia arte fa arte e solo chi studia sport fa sport, ma è sbagliato. Questo poteva valere ai tempi di Leopardi, ma è una visione culturale ottocentesca, la divisione della cultura in settori oggi non regge più..
Ma sa che cosa rispondono: i test che fanno ai nostri ragazzi dimostrano che c’è una ignoranza di base che va colmata, altro che sport e musica!
Sa cosa gli risponderei? Che noi abbiamo tanti atleti di alto livello, per esempio, che proprio perché atleti di alto livello vanno bene a scuola, perché quello ti stimola anche nello studiare meglio, nel darti un metodo di studio. Ma è vero anche che i ragazzi non comprendono i testi e non sono in grado di dialogare, perché parlandoci ti rendi conto che delle parole che gli hai detto ne hanno capite la metà. Purtroppo questo è un problema dei giovani. Ma il fatto di poter fare attività che comunque ti aiutano a sviluppare alte modalità comunicative, ti aiuta anche nel linguaggio. Quindi la musica non è fine a se stessa, non è in contrapposizione all’italiano, alla matematica, perché chi è bravo nello sport o nella musica, la matematica la capisce meglio. Noi abbiamo questa idea che l’artista è qualcosa di diverso, è semplicemente uno bizzarro. Invece no, l’artista è uno che ha un modo di rapportarsi diverso alla realtà, ma che forse che ha degli strumenti in più per comprenderla.
Gli insegnanti più giovani che stanno entrando con i concorsi, sono pronti ad affrontare queste sfide?
Sicuramente chi è più giovane è meno portato a ripercorrere vecchi modelli, insegnando come ha visto insegnare. E’ naturale, lo facevo anche io: quando ho cominciato a insegnare mi sono reso conto che avevo tante belle idee, poi andavo in classe e facevo esattamente quello che non volevo fare. Negli ultimi anni, invece, ho visto entrare a scuola tanti insegnanti che hanno veramente un approccio diverso e voglia di sperimentare cose nuove. Sono fiducioso.
L'autrice / autore
Ho cominciato come giornalista molti anni fa nella carta stampata (La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno) per poi avventurarmi nei nuovi meandri della comunicazione. Qualche anno fa ho incontrato gli studenti delle scuole superiori e mi sono appassionata all’idea di trasmettere le competenze giornalistiche ai ragazzi, che mai come in questo tempo ne hanno bisogno. Convincere loro non è difficile. Lo è di più con gli adulti. Devo far capire che imparare a fare (e farsi) le domande, a distinguere le cose vere da quelle false, a cercare le fonti, a spiegare e spiegarsi, a comunicare con ogni mezzo possibile, insomma a muoversi nel mondo complesso in cui ci troviamo, sono strumenti non solo utili per qualunque lavoro vogliano intraprendere, ma anche – la dico grossa – per salvarsi la vita. Mi hanno chiesto di fondare la testata giornalistica degli studenti toscani ed eccomi qua.