Il romanzo a tema saggistico di Benjamín Labatut che prende per mano il lettore e lo porta a “sentire” le nozioni.
di Anastasia Ghezzi
Cos’hanno in comune Grothendieck, Schwarzschild, Schrödinger, Heisenberg o altri protagonisti del romanzo? Hanno tutti cercato di capire il mondo.
In ogni capitolo ci viene narrata la vicenda di una scoperta scientifica o matematica attraverso la narrazione della vita del fisico, dello scienziato o del matematico che ebbe una sorta di “rivelazione”. Labatut si propone di ricostruire le vicende che hanno dettato la nascita della scienza moderna, entrando nella storia e nella mente dei protagonisti assoggettata alla precarietà dei corpi. Raccontando le loro ossessioni e le loro malattie ne eleva probabilmente la grandezza.
Gli scienziati, i fisici e i matematici descritti da Labatut sono resi folli dalle loro stesse scoperte, totalmente immersi e annullati dalle proprie spirali di pensiero. Spesso non comprendono come sono arrivati a fare le loro scoperte e non riescono a determinarne le conseguenze.
Del resto l’autore, quando li ha scelti, sapeva a cosa andava incontro: Fritz Haber, Karl Schwarzschild, Alexander Grothendieck, Erwin Schrödinger, Werner Heisenberg e Louis de Broglie non erano certo famosi per la loro stabilità.
Forse anche per questo il nome di Einstein, anche se fondamentale nella scienza moderna, è solo accennato: aveva una personalità troppo equilibrata per comparire in un libro che segue il filo conduttore della maledizione del genio, il quale culmina nell’epilogo de Il giardiniere notturno, nel quale il protagonista si rallegra di aver abbandonato la matematica per passare le sue notti a occuparsi di un giardino.
È un’opera di finzione basata su fatti reali: Labatut si inserisce efficacemente nei vuoti biografici di questi grandi personaggi per costruire un racconto a incastro, il meccanismo narrativo non ha falle, i rapporti tra i personaggi sono più matematici delle equazioni che cercano di risolvere.
Tutto ciò è la risposta al dramma della scoperta di un mondo instabile, un mondo che forse non abbiamo davvero smesso di capire, ma che ogni giorno ci mette di fronte alla sfida, stimolante e terrorizzante allo stesso tempo, di dargli un senso.
Labatut ci consegna così un filo d’Arianna che collega le vite di questi personaggi, una costante che ne definisce la pazzia. Da chi ha inventato il cianuro a chi ha risolto le equazioni della relatività generale.
Il periodo storico preso in esame è ampio, parte dai primi anni del secolo scorso, quando il mondo stava perdendo la propria aurea spirituale e si scontrava con la materialità delle scoperte scientifiche.
Uno dei temi principali è quello della prospettiva: la scienza è in grado di toccare vette altissime, così come di creare i baratri più profondi.
Per Labatut è fondamentale lasciarsi attraversare dall’ispirazione, così il confine tra letteratura e scienza diventa sottilissimo.
“Il fisico, come il poeta, non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali”
Così anche il giovane Heisenberg durante il suo soggiorno a Helgoland rivoluziona il mondo scientifico con le sue scoperte sulla meccanica quantistica e lo fa accorgendosi che bisogna smettere di capire il mondo così com’è e adottare nuove prospettive.
L’epilogo di Quando abbiamo smesso di capire il mondo ci consegna la chiave di volta per comprendere meglio il libro di Labatut. Ci sono strani funghi che divorano le piante, animali che muoiono misteriosamente, una sorta di apatica fiducia nel mondo scientifico… però in qualche modo la vita non smette di rifiorire. È una raccolta di storie su quelle connessioni impalpabili che si instaurano tra pensiero e realtà esteriore, e che portano, a volte per caso, al progresso scientifico. Dalle storie raccolte nel libro traspare una sfiducia nei confronti della scienza, o meglio, nel modo in cui gli esseri umani la gestiscono.
Solitamente siamo abituati a individuare il ruolo positivo che la scienza ha avuto nelle vicende umane, e più o meno inconsciamente rimuoviamo dalla nostra memoria i danni che, per fortuna in percentuale minore, ha causato nel mondo. Invece, nel libro di Labatut l’ago della bilancia del dilemma etico legato alla scienza pende verso il pessimismo.
“La scienza non offre verità ma un metodo, pieno di incertezze: una domanda scottante mai del tutto risolta. La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero, un desiderio di sapere perseguito con lo stesso fervore con cui i santi desideravano il contatto con il Verbo. […] Mi interessa l’oscuro ventre della scienza, i difetti nella logica dell’universo, le scoperte clic rompono la nostra immagine della realtà o l’espandono fino all’inimmaginabile, perché anche la scienza, se vista da una certa prospettiva, è una forma particolare di follia: la follia di pensare che possiamo capire il mondo.”
La scienza, afferma Labatut, non è mai il riflesso del mondo, ma delle nostre menti; e quindi “solo una visione di insieme, come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permette di decifrare la forma in cui è organizzato l’universo”.
Labatut prova quindi a rendere la scienza letteratura e l’esperimento è sicuramente riuscito: i suoi personaggi sono letterari, umani, pieni di ossessioni, paure, idiosincrasie.
L’autore dunque ci restituisce la sua personale visione del genio e della scienza.
Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un’opera usata da Labatut per sottolineare l’ambivalenza della scienza e la maledizione della persona. Il messaggio che arriva forte e chiaro è che la scintilla che “fa accendere la lampadina” non sta nel semplice ragionamento e nell’analisi della realtà, ma in una sorta di epifania metafisica e inspiegabile. Questo concetto rimanda un po’ al film Arrival, di Denis Villeneuve, dove la protagonista, una linguista che deve imparare a comprendere la lingua che utilizzano gli alieni, per poter comunicare con loro e capire che intenzioni hanno. Questa comprensione non nasce solo dalla competenza, ma scaturisce da lampi e immagini afferrati al momento giusto nel profondo della mente, che secondo Labatut può generare indifferentemente salvezza e distruzione.
“Quello che la notte prima aveva scambiato per il guizzo intellettuale più importante della sua vita gli sembrò il vaniloquio di un fisico dilettante, un triste episodio di megalomania.”
È una prosa che cattura e coinvolge, quasi ipnotica.
Si sfoglia come se si sfogliasse un giallo, con la stessa smania di arrivare alla fine. La complessità che deriva dalle connessioni tra le scoperte e gli aneddoti che descrivono le persone, proprio come le reazioni chimiche, creano una ragnatela tanto aggrovigliata quanto semplice da leggere per chi sa coglierne i particolari…
Labatut prende per mano il lettore e lo accompagna in questo filo di pensieri, storie e teorie che, se in un primo momento ci fa intendere che abbiamo una buona idea di come funzionino l’universo e la natura intorno a noi, si instilla nelle nostre menti il dubbio che, alla fine, forse, il mondo non lo conosciamo così bene e che in fondo siamo così piccoli che non lo capiremo mai del tutto, nonostante la smania che abbiamo di farlo.
“E a chi dobbiamo questo meraviglioso inferno, se non a voi? Mi dica quando ha avuto inizio tutta questa follia, professore. Quand’è che abbiamo smesso di capire il mondo?”
L'autrice / autore
Non ho talenti speciali, sono solo “appassionatamente curiosa”, direbbe Einstein se fosse al mio posto.
Tra le colline della maremma grossetana, ho sempre trovato un rifugio nei libri. Le emozioni degli autori attraversano le loro penne, mi sento più vicina a loro ed è così che ho imparato a conoscere veramente il mondo.